IraMi ero svegliato stanco, convinto di non aver dormito. Se l’avevo fatto erano state ore frustate da sogni preoccupati. Erano due giorni che la tensione nella casa principale rasentava una crisi atomica, effetti che oramai si sentivano vagare nei corridoi della Casa di Guardia e tra le parole e gli atteggiamenti degli uomini costretti a confrontarsi con Ayhan e DD.

Uscii dalla Casa di Guardia e venni accolto dal leggerissimo chiarore dei primi raggi, quelli che troppo mattinieri devono aspettare ore prima che il resto del sole li segua. Riuscivano a dare vita a troppo poco, mentre la notte pesante manteneva avvinghiato il suo nero alla terra e a tutto ciò che comprendeva.

La sentii prima ancora di vederla. Sentii il picchiare dei piedi sul terreno, il frusciare degli abiti contro cespugli e rami bassi. La rabbia che la sosteneva mi colpì come un’onda d’urto. A pochi metri dalla casa principale, rallentai il passo, cercando di capire dove si trovasse, per raggiungerla o anticiparla. Scrutai con lo sguardo nella pece ambientale che mi circondava fino a quando non passai la visuale sulla casa.

Deviai rapido, riprendendo a camminare verso la palestra, ma incapace a togliermi dalla testa l’immagine di Ayhan sul balcone ad est. La sua sola presenza in quel momento era segno di come la loro nottata si fosse conclusa. Indicazione dell’umore che il capo avrebbe avuto anche quel giorno.

Entrai in palestra e attesi. Cominciai riordinando le attrezzature fuori luogo, prima di fare brevi esercizi con le armi disposte sulla rastrelliera. Il tempo sembrò interminabile.

Quando DD entrò in palestra, la camminata stanca, il sudore allargato in ampie macchie su maglietta e pantaloni, non potei far altro che restare immobile contro il muro, incerto. Il suo sguardo mi bloccava, mi terrorizzava. Mi avrebbe ucciso, per il tentativo che volevo fare?

Lei non mi degnò di un’occhiata, oltrepassandomi per raggiungere lo spogliatoio. Sentii l’acqua scorrere, immaginandola mentre si sciacquava il volto. Poi tornò fuori, andò all’angolo del sacco e si preparò le mani per colpirlo. Cominciò rapida, pugni e calci diretti e forti. Si muoveva attorno al sacco che danzava inerme.

Feci profondi sospiri, cercai la forza sufficiente per sostenermi e avanzai verso di lei.

«Qualunque cosa sia successa con Aleksandr, devi eliminarla. Cancellare l’evento.» deglutii sonoramente mentre lei fermava il sacco e mi fissava. «L’ira ti offusca. Devi placarla, ridare respiro al tuo intelletto, alla tua capacità di anticipare gli eventi. Quante volte ti sei lasciata guidare dall’ira? Quante volte ne hai pagato le conseguenze?» riuscii a dire tutto d’un fiato, mantenendo saldo l’incontro dei nostri sguardi.

«E se questa volta non ci riesco, Jim?» la disperazione nella sua voce mi colse di sorpresa.

Cos’era successo veramente a Mosca? Cosa aveva fatto Yermenko per scatenarla a tal punto. Lei lo aveva ucciso, ma questo non aveva placato la sua ira; sembrava l’avesse resa stabile.

«Devi riuscirci. Maggiore sarà la durata di questa tua ribellione, peggiori le conseguenze che verranno usate per sedarla.» insistetti, guardando di sfuggita la bianca cicatrice che le percorreva l’avambraccio. Glielo lessi in faccia che conosceva i piani verbali, segreti, che già si stavano sviluppando per punire questo suo comportamento.

«Cos’è successo con Aleksandr?» chiesi bisbigliando, abbassando appena lo sguardo.

Negò col capo, facendo danzare l’alta coda che si era fatta. Deviò lo sguardo verso l’esterno, in direzione della casa principale, facendo respiri profondi, preparandosi a qualcosa per la quale avrebbe dovuto di nuovo cedere. Atteggiamento che mi colpì il cuore, riempiendolo di tristezza.

All’improvviso, DD colpì con violenza il sacco, facendolo rimbalzare contro la parete. Poi si allontanò, con passo sicuro e testa alta, pronta a sottomettersi nuovamente al volere del Clan.