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Penso che il problema principale fosse stato che odiavo dove abitavo. Non sopportavo l’isterica del piano di sopra, effetti che sembrava ottenere anche da marito e figlio, a sentire le urlate risposte. M’irritava il cane dell’appartamento a fianco, che abbaiava ad ogni singola cosa che circolasse oltre la sua visuale a ringhiera.
L’angoscia che mi ribolliva quando la necessità di fare una doccia era al limite; il piccolissimo bagno senza finestra tratteneva odori e vapori, impegnando asciugamani. Senza tralasciare il braccio doccia, posizionato in un’angolatura che non ti permetteva di stare dritto sotto il getto e che dovevi tenere basso per non lavare il pavimento. Il resto dello spazio era esiguo. Le mie passioni, libri, musica e film, non avevamo una loro corretta posizione. Ammassati e inscatolati si nascondevano, annullando il mio interesse.
Ma era l’assenza della fonte di vita più importante che mi mancava: la luce. L’esposizione a nord delle finestre non ne permetteva l’accesso al sole, trasmettendo, attraverso i vetri, il freddo. Confortevole d’estate, cupo d’inverno, ma opprimente tutto l’anno.
Quando avevo firmato il contratto d’affitto per quella casa, il mio punto fermo era la libertà. Il vivere da solo. Era il massimo del costo che potevo permettermi, e mi ero convinto che avrei trovato una soluzione per gli spazi. La ritorsione della libertà mi aveva colpito poi, come una vanga nel terreno solido. Una solitudine che non potevo dichiarare, perché per anni avevo gridato al mondo che era quello che volevo.
Col senno di poi, credo che l’avessero capito. Quando, quel primo Natale nel nuovo appartamento, mi avevano regalato il pesce rosso, avrei dovuto dare attenzione a quel gesto. Imponendomi quella compagnia, necessaria di cure, avevano lanciato un gancio; che non avevo preso.
L’orgoglio faceva parte del DNA famigliare. L’ho pensato dopo, in quell’ultimo momento di lucidità. Quando ancora gli occhi vedevano, fissi su quel pesce che girava alla luce dei led del suo acquario in vetro, abbellito da piante e sassi colorati, nell’acqua pulita dai filtri. Nella sua solitudine ho intravisto un amo che si era incagliato tra i sassi.
Credo di aver sospirato di comprensione: se l’avevano capito, avrebbero accettato il mio cambio d’idea. Sarebbe stato per un’altra volta.
Non so dire come mi abbiano trovato. Ricordo che mi ero messo comodo sulla mia poltrona, davanti alla televisione spenta. Nell’ombra delle tapparelle abbassate, illuminato solo della luce dei led.
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