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Mi svegliai di soprassalto. Immobile su quella sedia, perché le catene usate non erano state sganciate. Cercai di aprire le palpebre, ma ebbi fortuna solo con una. Sebbene non completamente. Ero nudo. Una sensazione data dal ricordo. Ed ero sporco, ricoperto del mio sudore, sangue e urina. Una convinzione data dalla pelle e dai capillari che mi erano rimasti.
Aveva cominciato l’uomo per primo, con la fiamma ossidrica. L’aveva accesa e passata sulle catene che mi sostenevano, girate attorno al busto, alle gambe e braccia come attorno al tronco di un albero. Sono sicuro d’aver gridato. Mentre il dolore martellava nelle orecchie, lui ha cominciato a fare le domande; dimostrando che sapeva chi avevo visto e cosa avevo detto.
Lo guardavo sconvolto. Se già sapeva, perché quella tortura? Eppure lui aspettava risposta, dovevo confermare la mia infamia, il mio tradimento. Cominciò a colpirmi. Calci e pugni in ogni direzione, su ogni zona esposta. E il tempo diventò effimero, inutile da contare.
Quando lei uscì dall’ombra scoppiai a piangere. L’uomo si ritirò in disparte; una sentinella di guardia, una sicurezza affinché non le facessi male. Non percepii i suoi gesti, non sentii il dolore che mi fece; troppo offuscato dall’angoscia di quello che avevo fatto al Clan. Esasperato, confessai tutto all’angelo della Morte.
Poi svenni.
Nella consapevolezza del concesso risveglio, tentai di guardare in basso, di cercare la gamba che non sentivo più. Era lì, immobile, nera. Mi chiesi se anche la mano che non percepivo era nella medesima situazione. Sobbalzai quando la donna poggiò il secchio a terra, accanto a me. Non l’avevo sentita, eppure doveva essere stato il suo ingresso che mi aveva svegliato.
Lei non mi guardò, gettando una spugna dentro il secchio e cominciando a lavarmi. La osservai di traverso: gli abiti grigi, i capelli neri raccolti in un fazzoletto legato come se fosse una fascia protettiva dalla polvere. Era giovane, un’adolescente, una delle serve della proprietà.
«La mia mano è nera?» riuscii a chiederle.
Lei non mi guardò, ma negò con la testa.
Non osai chiederle se non c’era più, nel profondo lo sapevo. Venticinque anni di vita, dieci dei quali all’interno del Daire, e mi ero giocato tutto per una macchina di lusso.
«Tornerà per uccidermi?» la speranza mi premeva nel petto.
Allora lei mi guardò, con occhi di ragazzina che osserva l’adulto ingenuo: «Sei già morto…»A
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